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Avverbio, inequivocabilmente odiato

L’avverbio è cugino del refuso (il killer silenzioso), che invece all’interno di un testo rischia di fare un gran baccano.

Anche se molti autori non se ne rendono conto, l’avverbio è uno strumento che pesa molto nell’economia di un testo. Spesso viene utilizzato con poca attenzione, per pigrizia. Si inserisce, ad esempio, un “velocemente”, anziché trovare un modo più elegante e creativo per esprimere una determinata idea.

Esempio: Laura corse velocemente verso la libertà (frase presa da un testo che abbiamo editato).

Non è una frase grammaticalmente sbagliata, però è eccessiva e ridondante. La bravura di uno scrittore sta nello scegliere i vocaboli più precisi possibili che suscitino le giuste sensazioni ed emozioni.

Invece potremmo scrivere: Laura scattò verso la libertà.

Per quanto questa correzione possa sembrare banale, e forse anche superflua, rende la lettura più scorrevole. Ma non solo, se sfrondiamo l’interno romanzo di decine (più spesso centinaia), di avverbi inutili, il risultato è un manoscritto più pulito, leggero e preciso.

Un po’ di grammatica di base

Prima di addentrarci sulla sua validità o meno, credo sia opportuno avere una lista di quali sono, un po’ di ripasso della grammatica di base.

Sono divisi in avverbi di:

  • luogo: qui, qua, costì, colà, vicino, lassù, laggiù, lontano, dovunque, altrove, ecc.;
  • tempo: ora, adesso, ancora, ieri, oggi, domani, talora, prima, poi, presto, spesso, subito, sovente, tardi, sempre, mai;
  • di quantità: poco, molto, meno, troppo, più, tanto, assai, niente, nulla;
  • di modalità, quelli che indicano un’affermazione, una negazione, un dubbio e un giudizio: sì, certo, sicuro, no, non, neanche, neppure, nemmeno, forse, probabilmente, quasi;
  • modo o maniera: bene, male, meglio, peggio, volentieri, magnificamente, amaramente, bocconi, ciondoloni, ecc.

Vengono divisi in base anche al modo con cui si formano in 3 categorie:

  1. Avverbi primitivi: bene, male, forse, pure, sempre; ieri, oggi, poi, tardi, mai, spesso, meglio, peggio, magari, volentieri, molto, tanto, poco, meno, presto, subito.
  2. Composti; almeno (da al-meno), persino (per-sino), intanto (in-tanto), infatti (in-fatti), dappertutto (da-per-tutto),  inoltre (in-oltre), 
  3. Avverbi derivati: onesta-mente, lenta-mente, rapida-mente, carp-oni, tast-oni.

Sono solo alcuni esempi dei principali, si possono avere anche avverbi nella forma comparativa (meglio, peggio), o anche superlativa (ottimamente, molto male).

Come li usiamo, adesso?

L’ostracismo feroce dell’avverbio nasce all’inizio del secolo scorso, quando la letteratura americana si sviluppò portando alla ribalta nuovi autori e stili.

Infatti la lingua inglese, più semplice e immediata, predilige una scrittura diretta (in linea di massima), forse anche dovuta al pragmatismo dei popoli anglosassoni.

Basti pensare a due miti della letteratura come Mark Twain che arrivava a incoraggiare l’assassinio di ogni singolo avverbio! 

E in tempi moderni anche Stephen King, in molte interviste, ha dichiarato guerra all’avverbio.

In linea di principio sono consigli che tutti dovremmo ascoltare, e seguire! Di solito in un manoscritto, un buon editor, prima di ogni altra cosa “taglia”, alleggerisce il testo per renderlo più intenso e diretto possibile.

Dimagrimento letterario

Potremmo fare un banale esempio: se vuoi partecipare a una gara di corsa amatoriale, dovrai prima perdere qualche chilo. Così andrai in palestra e farai una dieta.

Una volta al tuo peso forma potrai iniziare a correre, allenandoti proprio per la gara. Editare un testo è la stessa cosa: prima si elimina il superfluo, poi si rende il tutto più potente.

E gli avverbi? Sono le maniglie dell’amore.

ESEMPIO: Giulia aprì lentamente la portiera dalla macchina, si guardò intorno attentamente per vedere se il suo informatore fosse arrivato. Infine scese dalla vettura mentre la tormenta le sferzava il viso violentemente.

Si tratta di una immagine banale, lenta ma in fin dei conti abbastanza corretta. Però scrivere un romanzo o un racconto, non è fare il compitino: si devono trasmettere emozioni.

Attraverso Giulia dovremmo poter sentire la tensione, la paura e l’impazienza. Ma anche il freddo. Invece ci sentiamo al di fuori della scena, come fossimo degli ospiti.

Uno dei fattori che determina questa distanza, è l’uso eccessivo degli avverbi.

Come migliorare il testo?

Se volessimo migliorare il testo, senza troppa fatica, potremmo provare a eliminare tutti gli avverbi, avremmo quindi:

ESEMPIO: Giulia aprì lentamente la portiera dalla macchina, si guardò intorno attentamente per vedere se il suo informatore fosse arrivato. Infine Scese dalla vettura mentre la tormenta le sferzava il viso violentemente.

Scorre meglio, non c’è dubbio. Eppure quel “infine” è un avverbio che serve, offre al lettore una chiave necessaria per il proseguimento della scena.

Giulia, prima è titubante perché apre la porta e si guarda intorno (se un personaggio agisce così non hai bisogno di rimarcarlo con gli avverbi). Poi viene specificato il motivo per cui sta scendendo dalla vettura  – l’informatore – che indica qualcosa di “losco” o “poliziesco” e che la attende.

L’avverbio “infine“, conclude la scena e Giulia prende una decisione senza tornare sui suoi passi. Anche l’avverbio “violentemente” è inutile, perché abbiamo già usato due termini che, in loro, esprimo già violenza: tormenta, sferzava.

Avverbio sì, avverbio no, avverbio…

Cosa si deve fare con questi pericolosi avverbi? In linea di massima, se ancora non si è degli esperti scrittori, il mio consiglio è di eliminarli tutti.

Non significa che all’interno di un romanzo non ce ne vada alcuno, quelli con il suffisso -mente sono, senza ombra di dubbio, i peggiori.

avverbio romanzoStonano. C’è poco da fare, per cui basta utilizzare la funziona “trova” di Word e digitare -mente. E poi andare a valutarli uno per uno, di solito cancellandoli! Ti renderai conto, la prima volta, che sono molti di più di quanti immaginassi.

Per gli altri dovrai imparare a valutarli di volta in volta, un segreto – per quanto banale – di rileggere la frase senza di essi per vedere se esprime lo stesso significato ed emozioni. 

Capita che la maggior parte degli avverbi siano ridondanti:

Esempio: sbattere violentemente i pungi sul tavolo

L’avverbio è inutile. Se qualcuno sbatte i pugni, è chiaro che lo fa con estrema violenza.

I vocaboli utilizzati, in italiano soprattutto, hanno una tale meravigliosa specificità che spesso ce ne dimentichiamo. Tanto che molti verbi, o termini, hanno in sé molte sfaccettature. Quando costruisci una frase, e c’è un avverbio di mezzo, prova a fare una ricerca dei sinonimi, potresti trovare termini che già esprimono tanti elementi.

E poi ogni avverbio rallenta la lettura, la rende pesante e stucchevole, senza offrire nulla al lettore, sembra quasi che l’autore stia rimarcando qualcosa perché non è stato in grado di mostrarla: show, don’t tell.

Perché l’avverbio è tanto osteggiato?

Facciamo un passo indietro, come visto molti grandi autori considerano l’avverbio uno strumento spuntato, quasi inutile nell’economia di un testo letterario.

Ciò deriva dall’estremizzazione che è stata fatta, proprio a causa del famoso “show, don’t tell, che ha spinto in molti verso una scrittura che potremmo definire “cinematografica”. 

Questo modo di scrivere è fin troppo descrittivo, in cui ogni azione e situazione devono essere, appunto, mostrate e mai narrate. Viene da sé che l’avverbio stoni in questo contesto, risultando spesso inutile e pesante perché sono di sicuro poco eleganti (cacofonici in primis) e spesso generici.

L’avverbio come campanello d’allarme

Per risolvere l’annosa questione, alcuni insegnanti di scrittura creativa sono stati creativi, hanno quindi deciso che l’avverbio andava sì eliminato, ma anche rimpiazzato con un complemento di modo.

Esempio: Laura corse velocemente verso la libertà.

Diventerà: Laura corse in modo veloce verso la libertà.

Si passa da una frase poco precisa e brutta, a una davvero pessima! Quando ci si trova di fronte a situazioni di questo tipo, lo scrittore dovrebbe trovare un modo diverso per esprimere quel dannato avverbio. Le soluzioni sono 2:

  1. utilizzando un verbo più preciso (es. scattare),
  2. mostrare la scena in un altro modo, più ricco.

Come farlo? Provando a raccontare meglio la scena.

Esempio: Laura si sfilò il cappuccio, respirò a pieni polmoni l’aria gelida della sera e iniziò a correre dando fondo alle sue ultime energie.

Quando capita di inserire un avverbio nel proprio romanzo, è consigliabile fermarsi e porsi una domanda: posso scrivere la stessa scena in un modo più preciso e incisivo?

Li devo mettere o togliere?

Bella domanda.

La letteratura non è una scienza esatta, ma una forma d’arte. Ci sono romanzi strapieni di avverbi che hanno un successo planetario, come “La psichiatra” il testo più noto di Wulf Dorn, che solo in Italia ha venduto più di 800.00 copie.

Ci sono periodi di tre righe con anche 4 avverbi in “-mente”! Sembra di leggere una filastrocca per bambini.

Per non parlare del vincitore del Premio Strega e del Campiello “La solitudine dei numeri di primi” in cui ce ne sono così tanti da avere la nausea.

La bravura di uno scrittore non sta nel non usare alcun avverbio o nell’usarne troppi, ma nel capire quando sono necessari e quando, invece, sono inutili.

2 commenti su “Avverbio, inequivocabilmente odiato”

  1. Buona domenica.
    Premesso che le ragioni dell’editing arrivano a essere addirittura “minimaliste”, nel senso che non se la prendono solo con i poveri avverbi, ritengo opportuno “palesare le mie intenzioni” come si direbbe alla vigilia di una scazzottata (più che bonaria, naturalmente).
    L’avverbio, l’aggettivo, i due punti e altre forme grammaticali/sintattiche prese di mira dagli editors, possono e devono essere usate, ma con giudizio, orecchio e prudenza, come qualunque utensile. L’avverbio è considerato un “rafforzativo” del verbo, quindi se è stato usato probabilmente il motore della frase non è il meglio del vocabolario, inoltre rallenta paradossalmente l’azione pur volendo fornire quel “rafforzativo” di cui parlavo.
    So tutto ciò eppure li uso. Con dolo, ma lo faccio.
    Rallentare a volte non è un male (parlando di giudizio, quando serve “rallentare”?), chi scrive non sempre fa il giornalista, non tutti nasciamo Hemingway nel senso che ognuno possiede un modo di esprimersi diverso, che, compitino a parte, arriva allo scopo più “lentamente” di un discorso affilato e scarno di ciccia, come una passeggiata a zonzo per i negozi.
    Da qualche tempo, complice le tue bacchettate, di rado indolori, ho imparato a economizzare, a mostrare e non a descrivere, allo “show, don’t tell” del grande domatore Scavuzzo, ma la strada è impervia e di tanto in tanto una vocina mi dice: “mettilo, lo puoi fare!”.
    Che mi stia trasformando in un crociato ammazzavverbi? Spero di no, perché servono, come le incisioni sulla lama di una sciabola. Vorrei vedere chi sceglierebbe la gemella nuda e cruda.
    Equilibrio, potenza della comunicazione (che scriviamo a fare sennò?) e senso pratico, pur rimanendo se’ stessi.
    È questa la vera sfida.
    Un abbraccio.

    1. Concordo con quanto scrivi. A mio avviso il problema reale non sta tanto nell’avverbio, ma nei presunti autori che lo utilizzano un po’ come il pepe nella pasta e fagioli: eccedendo. Se ciò che cucini è insipido, e ci butti dentro delle spezie convinto che quel gesto così elegante e raffinato trasformi una brodaglia insipida in un piatto fenomenale, allora ti sbagli. La bravura sta nell’usarli al momento giusto per “rafforzare”, come dici tu, quel passaggio che ha realmente bisogno di un rinforzo. Per capirlo basta fare una ricerca sul proprio romanzo e scrivere “mente”, a quel punto ci si renderà conto – nella maggior parte dei casi – di non saper usare l’avverbio ma di inserirlo a caso per riempire.

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