Per scrivere bene si deve coinvolgere il lettore, farlo sentire nel luogo dell’azione e renderlo partecipe di quanto accade, di ciò che provano i personaggi. La cura dei dettagli, quindi, non è soltanto necessaria dal punto di vista scenico, ma ha un impatto più profondo e personale.
La maggior parte dei testi che mi arrivano, hanno il difetto di essere gravidi di aggettivi e avverbi che neanche una femmina di coniglio! Li vomitano in ogni frase riempiendola di parole che sono INUTILI.
E anche molti libri moderni seguono tale scelta stilistica che trovo – ribadisco è un mio punto di vista – di una pesantezza interstellare. È giusto accompagnare il lettore nel proprio scritto mostrandogli un universo, ma senza esagerare.
L’eccesso di spiegazioni e descrizioni diventa controproducente nel momento in cui sovrasta la possibilità di immaginare. Certo dipende anche dal genere, un fantasy necessita di pennellate più vigorose, scenari che possiamo non solo vedere, ma quasi sfiorare.
Cura dei dettagli: pochi ma buoni
La cura dei dettagli, però, non è eccesso. Non è dire tutto, ma solo il necessario nel modo giusto. Anni fa si tendeva ad avere una prosa “pesante”, con descrizioni vive e piene di informazioni che rischiano, a oggi, di annoiare.
Perché anche il modo di leggere è cambiato, abituati a chat e social tendiamo a farlo con un pizzico in meno di attenzione, focalizzandoci su aspetti diretti e pratici, piuttosto che su spiegazioni. Non saprei dire se sia giusto o sbagliato: scrivere e leggere si evolvono costantemente, dando vita a nuovi modi di parlare, comunicare e scrivere.
Credo però che, eccedere nei dettagli, sia una errore dovuto all’inesperienza, al desiderio di fare “l’artista” credendo che più cose si scrivono e migliore sarà la qualità del testo. Abbiamo negli occhi romanzi di qualche secolo fa, una cultura della parola eccessiva, ridondante.
Erano maestri nello scrivere così, faceva parte della loro natura formale, delle convenzioni sociali a cui spesso dovevano sottostare. Quel modo di scrivere era lo specchio del loro mondo. E così è sempre stato, basti vedere alla Beat Generation americana che rifiutava le norme imposte (anche artistiche) e sperimentava con rappresentazioni crude della condizione umana.
Ma questo non vuole essere un trattato di letteratura, volevo solo farti vedere che il modo di scrivere è funzionale al periodo storico, al genere, a cosa si vuole comunicare.
Troppi dettagli = nessuno dettaglio
Il punto, in fin dei conti è tutto qui. Riempire il testo di informazioni ha un effetto negativo sulla percezione degli stessi. Uno scrittore sa esporti un concetto con il numero minimo di vocaboli e, in più, farti provare delle emozioni.
Quello che accade nell’esagerare fa scadere il testo in una pantomima grottesca affollata di luoghi comuni. Facciamo un esempio pratico: la protagonista del tuo romanzo è una ragazza dai capelli neri e la pelle candida.
Durante la storia ti viene da ripeterlo, magari dicendo:
- capelli scuri come la pece (o il carbone),
- neri come la notte,
- talmente scuri che sembravano attirare le ombre,
- o un laconico “di ossidiana”.
per non parlale della pelle che potresti ridefinire come:
- simile all’avorio,
- bianca come il latte,
- talmente chiara da sembrare trasparente,
- come quella di una bambola di porcellana.
E potrei continuare per ore e ore con tutti questi banali cliché. Se l’hai già descritta, non serve continuare all’infinito a ripeterlo perché credi sia una cosa “artistica”. Se il personaggio è ben tratteggiato e caratterizzato è sufficiente dirlo una volta soltanto!
Prendiamo Goethe ne “Le affinità elettive”, i quattro protagonisti non vengono mai descritti dal punto di vista fisico. Una università ha effettuato dei test domandando a un certo numero di lettori di descrivere i due uomini e le due donne.
Se non ricordo male più del 70% li hanno delineati in modo simile, direi uguale. Non devi diventare Goethe, ma l’esperimento dovrebbe farti comprendere come si può anche dire tanto con poco, se poi si è dei geni si può far immaginare l’aspetto fisico di un personaggio senza neanche raccontarlo.
E per le ambientazioni e i paesaggi?
A mio parere vale sempre la regola che è sempre meglio un aggettivo in meno che uno in più, specialmente se non si è autori esperti è preferibile elaborare frasi più semplici e tentare di dare quel particolare significato scegliendo i termini più appropriati.
Esempio: quando si scrivono dei dialoghi è opportuno utilizzare frasi come “…disse Caio”. Sono necessarie per dare più chiarezza e far capire chi dice e quando. In questo caso ho usato un termine semplice, neutro, che di media va bene.
Se volessimo invece renderlo più incisivo, anziché scrivere: “Caio, in tono infastidito come da suo solito, disse…”.
Basterebbe un più semplice: …sbuffò/brontolò/imprecò Caio.
A volte capita di elaborare un testo, di volerlo descrivere in modo chiaro – e ci sta – ma lo si fa aggiungendo troppi termini che lo ingolfano letteralmente. Le due frasi appena citate, non sono tanto differenti, però quando si sceglie sempre, per un romanzo interno, la prima opzione, questo diviene per forza di cose lento, ingombrante, impacciato.
La scrittura perde fluidità e il lettore si perde tra aggettivi, avverbi e giri di frase corretti ma spesso inutili. Ecco che si deve editare il testo, portando a un livello più alto e scorrevole. Un buon editor elimina il superfluo per far emergere l’essenza più pura del lavoro di uno scrittore.
Così i paesaggi sono troppo carichi, nella maggior part dei casi, si utilizzano parole desuete, polverose per essere più artistici quando invece ciò che colpisce davvero il cuore di un lettore è l’empatia. Il farlo sentire lì con il protagonista, nella strada di paese avvolta dalla nebbia.
L’ultima frase è diretta, neutra, però ti ha già accompagnato in un ambiente da noir/thriller.
Autori inesperti tendono a stilare una descrizione pedante, piena di aggettivi e specifiche noiose: sono bastate poche parole.
Invece di solito trovo cose tipo: la ragazza camminava lentamente nella via del paese. La nebbia avvolgeva ogni cosa, ovattando i rumori e facendola sentire sola; il freddo intenso la obbligò a stringersi nel cappotto mentre una nuvola di vapore usciva dalla sua bocca disperdendosi nella bruma.
Il secondo testo è ricco di dettagli, luoghi comuni e informazioni. Apparentemente non ci sarebbe nulla di male, anzi. Potresti obiettare che ti ha mostrato con forza la realtà in cui si sta muovendo la ragazza.
Ma c’è un errore che toglie empatia al racconto, allontana il lettore e lo fa sentire come uno spettatore, e non come se fosse accanto a lei: manca il punto di vista soggettivo.
Il punto di vista soggettivo per descrivere paesaggi e ambientazioni
La prima frase è neutra, netta. Fredda come l’ambiente in cui si trova la ragazza.
La seconda stesura è ricca di dettagli interessanti, ci dice il dove e il quando. Forse anche alcuni indizi. Ma è una sorta di infodump, ci racconta dall’esterno cose che invece dovremmo letteralmente vedere con gli occhi della protagonista.
SHOW, DONT TELL
Ecco l’errore che rovina la maggior parte dei romanzi, per dare valore a una descrizione, che sia di un paesaggio o di una persona è meglio farla in soggettiva attraverso gli occhi di qualcuno. Così manteniamo il rapporto intimo con il lettore e gli mostriamo gli accadimenti facendolo sentire partecipe e non spettatore.
Nell’esempio della ragazza, basta la prima frase per dirci dove ci troviamo e innescare la fantasia, creando dubbi e aspettative. Sarà lei la vittima? Oppure la testimone della quale si innamorerà l’investigatore? O ancora potrebbe essere complice o lei stessa l’assassino?
Il racconto deve spostarsi su di lei, farci percepire il freddo attraverso piccoli gesti o la cura dei dettagli di cui parlavamo. Potremmo farla fermare un attimo per riprendere il guanto che le era caduto in terra. Poi descrivere il suo incedere lento (chiaramente a causa della nebbia, senza spiegare questo particolare).
Farle udire un rumore, è in lontananza oppure no? Poi lei affretta il passo, il battito delle scarpette di vernice sul selciato e un raggio di sole che tenta di fendere la nebbia, senza riuscirci.
Lei ci mostra l’ambiente, vivendolo
Anche quando si descrive un personaggio non si deve fare una scheda, simile a un curriculum. Dire subito che l’uomo era alto, dalle spalle robuste e i capelli neri. Anche in questo caso serve la soggettiva per dare profondità e potenza a una descrizione che chiunque è in grado di fare.
A quel punto potrebbe essere la ragazza che, al commissariato due ore dopo, attende di essere ascoltata. E sarà attraverso i suoi occhi che potresti descrivere l’uomo alto, l’investigatore. Aggiungendo dettagli che lei vede e coglie. Si creerà così un legame tra lei e lui, senza aver detto nulla. Evitando le solite banalità degli sguardi che si incontrano.
Il loro punto di contatto sarà molto intimo, il non detto che racconta molto di più e lega le persone. Non c’è stato bisogno di spiegare tutto quello che accadeva, è bastato lasciar intuire, la maestria di uno scrittore sta proprio nel famoso “show don’t tell“.
Se togli al lettore il diritto a fantasticare stai solo facendo sfoggio della tua cultura e capacità di tessere una buona storia, dire tanto con poche parole è una vera arte. Immagina che non sei solo tu a elaborare una storia, accanto a te ci sono tutti i tuoi (futuri?) lettori che hanno diritto di partecipare.
Le scene di sesso
Lo so, è un argomento pericoloso, ma credo sia il più adatto per dare un’idea ancora più preciso dell’importanza dei giusti dettagli. La maggior parte degli autori moderni scrivono scene di sesso che sembrano i racconti da doposcuola di qualche adolescente.
Esiste anche un “premio” per la peggior scena di sesso in un romanzo (Bad Sex in Fiction Award) della Literary Review che nel 2016 ha visto vincitore il nostro Erri De Luca!
Il sesso era un legno incollato al suo ventre. Allentò la spinta del bacio, si staccò, con uno scarto di fianco mi rigirò e fui sopra di lei. Sciolse le braccia dalle mie spalle, mi guidò le mani sopra i seni. Allargò le gambe, tirò su il vestito e tenendomi i fianchi sollevati spinse il mio sesso contro l’apertura del suo. Ero una cosa sua che lei muoveva. I sessi pronti, fermi nell’attesa, si appoggiavano appena, ballerini tesi sulle punte. Restammo così, Anna guardava giù verso di loro. Premette sui miei fianchi, un ordine che mi spingeva dentro. Entrai. Non solo il sesso, io entrai dentro di lei, nelle sue viscere, nel suo buio a occhi spalancati senza vedere niente. Tutto il corpo era sceso nel sesso. Entrai con la sua spinta e restai fermo. Mentre mi abituavo alla quiete, al battito del sangue tra le orecchie e il naso, mi spinse un poco fuori e poi di nuovo dentro. Lo fece e lo rifece, mi teneva con forza e mi spostava a ritmo di risacca. Agitò i seni sotto le mie mani, aumentò le spinte. Entravo fino all’inguine e uscivo quasi tutto, il mio corpo era un suo ingranaggio. Non respirava, i suoi occhi aperti vedevano lontano.
Premesso che stiamo comunque parlando di un grande autore, ma perché questa scena è tanto brutta?
- Le metafore lignee sono davvero orribili, e sono anche in numero eccessivo.
- Il ritmo è monotono.
- Descrive tutto, ci sono talmente tanti dettagli che sembra di stare dal ginecologo.
Tanti scrittori, famosi e bravissimi, incappano in una scena di sesso di questo tipo. Il sesso è difficile da scrivere perché se lo si fa in questo modo, eccedendo con i dettagli, si crea un qualcosa di grottesco e poco emozionante. Quella di De Luca è solo “raccontata” asetticamente ma manca proprio il lato personale, emotivo.
Non dà nulla, non suscita alcuna emozione se non una punta di imbarazzo e noia. Le autrici di romance – quelle brave – hanno invece la dote di usare il giusto numero di aggettivi e analogie, creano prima attesa grazie al non-detto, lasciando intendere e mostrando i futuri amanti nel momento dell’attesa.
Si crea un legame tra i protagonisti e il lettore che arriva al punto di fare il tifo, sente il desiderio che provano e quel momento descritto in qualche riga è una forma di appagamento. E in fondo il sesso è proprio questo.
- Desiderio.
- Seduzione.
- Attrazione.
- Attesa.
- Conflitto.
- Appagamento.
Non meccanica quantistica o falegnameria! E per riuscirci si deve mostrare con gli occhi dei personaggi, raccontare le loro emozioni attraverso azioni, sguardi o frasi. I dettagli sono pochi, eccedere porta al grottesco e al banale, ma inseriti al momento giusto quasi in modo casuale.
Se devi spiegare, significa che stai sbagliando.