Ormai termini come politicamente corretto, inclusività, femminismo spinto e chi più ne ha più ne metta, sono diventati dei veri e propri dogmi.
Dogma: principio fondamentale, verità universale e indiscutibile o affermata come tale.
“Affermata come tale”, significa che potrebbe non essere una verità assoluta, ma solo definita tale da qualcuno, spesso chi ne trae proprio un beneficio, materiale o meno. Non ne sto facendo una questione religiosa, ma logica.
Ormai il politically correct è, a mio avviso, una piaga peggio delle cavallette in Egitto. Scrivere con questa costante censura personale è diventato impossibile, si ha paura di esprimere il proprio parere per non urtare la sensibilità di qualcuno.
Il politicamente corretto tra Italia e mondo anglofono
Nel contesto italiano il concetto di politicamente corretto assume sfumature diverse rispetto al mondo anglosassone. In Italia spesso esso viene rigettato come imposizione morale, elemento di conformismo linguistico e limite al confronto libero, un atteggiamento che in certi ambienti culturali si mescola con l’idea che “non si può più dire nulla”.
Allo stesso tempo, su scenari anglosassoni, la questione è più stratificata: il politically correct è nato come risposta alle ingiustizie sociali (minoranza, genere, razza) per promuovere la sensibilità nel linguaggio, e nel tempo è diventato sia arma di inclusione sia bersaglio facile per critiche da destra che ne denunciano il “rigore ideologico”.
In Italia, ad esempio, si discute molto su come rendere neutri certi termini – e in tal senso le istituzioni linguistiche mostrano resistenze: recentemente l’ente ufficiale ha suggerito di evitare simboli gender-neutral (come l’asterisco o la schwa) nei documenti ufficiali.
Questa diversità culturale spiega anche perché in Italia il rigetto del politicamente corretto appare spesso più radicale: non è solo resistenza a imposizioni esterne, ma reazione contro quello che molti percepiscono come un “buonismo obbligatorio”.
In editoria le agenzie letterarie sono spesso schiave, ancor prima degli editori, a cui propongono accozzaglia di romanzi predigeriti dove l’unico interesse sta nel non scontentare i potenti e, solo dopo, il pubblico. Persino il denaro è meno importante del potere che si ha nel manipolare l’informazione e la letteratura.
Perché l’attenzione al linguaggio “politicamente corretto” conta (ma non dev’essere dogma)
Quando si parla di politicamente corretto, è essenziale evitare due estremi opposti:
- abbracciarlo come dogma assoluto oppure
- rigettarlo come tabù totale.
Il linguaggio plasma le nostre idee, scegliere parole consapevoli non significa autocensurarsi, bensì riconoscere che il nostro discorso ha impatto sugli altri. In ambito letterario, per esempio, ignorare certe sensibilità può produrre vuoto o chiusura: un dialogo può ferire, ma un dialogo male calibrato uccide ogni possibilità di ascolto.
L’abuso del politicamente corretto, quando diventa performativo o dominato dal timore di essere attaccati, rischia di soffocare la creatività. È qui che molti autori si sentono prigionieri e non osano sfidare idee, esplorare “zone scure” della natura umana, per evitare di inciampare nel giudizio del pubblico.
È qui che si trovano le tensioni autentiche (come il conflitto narrativo nei romanzi), le contraddizioni vere che stimolano riflessione. Bilanciare consapevolezza linguistica e libertà di espressione è un’arte, non una regola rigida.
Politicamente corretto fottiti
Macchisenefrega se esprimendo un parere (con educazione e i giusti modi), ti offendo! Se sto nei panni dell’autore che è in me, il mio compito è di smuovere le coscienze per far aprire gli occhi su argomenti scomodi.
Un’artista dovrebbe scuotere gli animi con idee nuove, punti di vista diversi dal pensare comune. Non sono dell’avviso che debba agire così per farsi notare, sia chiaro, ma perché è nella sua natura il think different.
Si tende a omologarsi non solo nel modo di scrivere (e di fare l’editing del romanzo), ma anche di pensare. Si preferisce scrivere un testo che piaccia a più persone (spesso anche alle agenzie letterarie) solo perché si dicono cose scontate, banali e convenzionali.
Un artista (come lo scrittore), non può limitarsi a mettere su pagina una storia, magari interessante, ma dovrebbe proporre sempre un messaggio, un punto di vista, che faccia pensare.
Credo che un vero scrittore sia chi, oltre ad avere una buona tecnica, spinge le persone a farsi delle domande invece di dargli delle risposte.
Pontificare, il vizio estremo dell’autore scarso
Si passa spesso dal terrore della parola, figlio del politicamente corretto, al delirio di onnipotenza che trasforma un romanzo fantasy in una lezione di etica o un romance che diventa un trattato su come dovrebbero essere, secondo l’autore, i rapporti tra uomo e donna.
Cosa c’è di male? Un conto è far esprimere ai personaggi dei pareri, dargli una visione del mondo che li renda “vivi”. Altro è utilizzarli per sbrodolare una serie di finti moralismi da discount che non hanno nulla di originale. Dire che ci debba essere parità tra uomini e donne è giusto, ma se lo infili in un romanzo facendo la morale non vai oltre l’acume di qualche politico che sbraita in televisione.
I personaggi, e il romanzo, diventano la scusa per pontificare e fare la morale su temi che per l’autore sono importanti. Dove sta l’errore?
Fare la morale con lo strumento del tell rende il testo una grandissima noia saccente che nessuno vorrà leggere (figurarsi pubblicare). Il dolore di una donna abusata va mostrato attraverso azioni e dialoghi, invece si commette spesso l’errore di fare banale retorica con lunghi pistolotti pseudodrammatici simili ai post di molti deficienti sui social.
Io non sono i miei personaggi
Scrivere romanzi ci dà la possibilità di reinventarci e immedesimarci in personaggi differenti. Processo necessario per scrivere buoni dialoghi, ma non solo. Troppo di frequente si confonde lo scrittore con il personaggio; se si tratta di un esordiente è normale che gran parte della personalità dell’autore – esperienze e valori morali compresi – fluiscano nel protagonista.
Con il passare del tempo si dovrebbe imparare a uscire da questo meccanismo autocelebrativo, e anche molto semplice, per osservare il mondo e creare personaggi che siano distanti da noi stessi.
Far nascere un cattivo è complicato, soprattutto perché il primo passo è rendersi conto che non è “noi”, ma una proiezione del nostro lato oscuro (“Usa la Forza, Luke!”). È l’archetipo dell’Ombra (Jung) che non dobbiamo mettere da parte perché brutto e malvagio, ma abbracciarlo (qui entriamo in un ambito psicoanalitico complicato) e, facendolo con i nostri “cattivi”, ci permette di muoverci nella giusta direzione per scrivere personaggi solidi e coerenti.
Invece, anche per colpa del politicamente corretto, si tende a negare il male mettendo su pagina una serie di sbrodolosi cattivi tanto noiosi quanto inutili. Tu non sei il cattivo, o almeno non del tutto! In noi c’è un lato oscuro, negarlo nella realtà porta problemi piscologici, in un romanzo alla scrittura di una zozzeria dolciastra senza mordente.
Io i cattivi li voglio tali. Che dicano cose inaccettabile per una società civile, che compiano azioni inenarrabili e che non seguano il ben pensare di cui è farcita la nostra decadente società. Voglio un cattivo che dica che le donne sono inferiori agli uomini; la pedofilia in passato era tollerata; i maschi sono tutti porci che pensano solo al sesso!
Sono concetti che ti turbano?
Se hai paura di argomenti così violenti, forse dovresti scrivere solo romance edulcorati, fantasy con eroi in armatura scintillante senza macchia e senza paura, e noir così scialbi da sembrare luminosi.
Attenzione: non significa avvalorarli o difenderli personalmente, ma è il personaggio che lo fa e serve per mostrare il lato oscuro dell’essere umano. Il politicamente corretto ci priva di questo (e dell’Ombra), togliendoci lo spirito critico e l’apertura mentale necessari per scrivere romanzi.
Il politicamente corretto come confine vivo, non gabbia
Alla fine, il punto non è vincere la guerra contro il politicamente corretto né sottomettersi a esso. Il punto è trovare una soglia viva dove il linguaggio non sia un’armatura dogmatica né un’arma che subito si spezza. Se uno scrittore (o chiunque parli pubblicamente) vuole smuovere, deve saper dialogare:
- ascoltare le fragilità altrui senza diventare schiavo del consenso,
- provocare domande anziché imporre risposte.
È un equilibrio fragile e mai definitivo sta la vera strada per un discorso autentico, capace di far crescere senza ammutolire.